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Rosario Pesce
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Quello che stiamo vivendo è un campionato di calcio anomalo, visto che, per la prima volta da qualche anno, anche per effetto dell’introduzione del Var, si ipotizza concretamente che le vecchie gerarchie del notabilato delle squadre italiane possano essere rovesciate, quando poi si assegnerà lo scudetto a maggio.
Non solo: in particolare, sembra essere riapparso del danaro nel calcio, per cui il livello tecnico dei club e, quindi, della competizione sta aumentando notevolmente, nonostante la differenza con il campionato inglese o quello spagnolo sia, ancora, notevole.
Certo, nessun club italiano può consentirsi l’acquisto di Ronaldo o di Messi o di Neymar, ma i talenti, o giovani o alla fine della loro carriera, stanno tornando a calpestare l’erba dei nostri campi.
Nelle prossime settimane, con l’elezione dei vertici della Federazione, ineluttabilmente il calcio italiano si darà una nuova governance, per cui molte cose non potranno non cambiare.
In particolare, è impensabile, con il nostro quadro economico nazionale odierno, che nei due principali campionati professionistici possano figurare ben quarantadue società sportive per molto tempo ancora: un dato eccessivo, che poi porta alcuni club a retrocedere in terza serie ed a fallire di seguito ovvero ad essere iscritti al massimo campionato solo per una stagione, senza essere effettivamente competitivi, come pure è successo negli anni scorsi ed, almeno, nella prima parte del campionato di quest’anno.
Quaranta società, spalmate fra A e B, sarebbero forse già troppe, così come il campionato di terza serie deve dare spazio ai vivai delle grandi squadre di serie A, per cui o vi devono partecipare le cosiddette “primavere” dei club più blasonati oppure a quelli, che oggi sono iscritti alla Lega Pro, bisogna imporre prescrizioni molte nette intorno all’età massima dei calciatori, a meno che non si voglia perdere l’enorme bacino costituito dai giovanissimi che non trovano spazio nei campionati professionistici e che, per questo motivo, si perdono per strada, facendo venire meno il necessario ricambio generazionale.
È ovvio che la mancata qualificazione della nostra Nazionale ai campionati di calcio della prossima estate costituisce un vulnus enorme, visto che una scuola calcistica, come la nostra, non dovrebbe mai mancare ad una vetrina sportiva di quel tipo, che al mondo è seconda solo alle Olimpiadi.
Ma, dai fallimenti bisogna ripartire, ben sapendo che si apre, dinnanzi a noi, un nuovo periodo nel corso del quale il calcio italiano deve saper rinascere dalle sue ceneri, a meno che non voglia divenire un fenomeno residuale a livello mondiale.
Una simile prospettiva, funesta per lo sport, sarebbe tragica finanche per l’economia nazionale: chi ha avuto la fortuna di assistere ad una partita di serie A, può conoscere bene l’indotto che si attiva, nelle nostre città, intorno all’evento calcistico e tale ciclo economico virtuoso non può essere pregiudicato per le défaillance tecniche del nostro movimento calcistico.
Pertanto, le ragioni dello sport devono procedere con quelle dell’economia in modo sinergico, se si vuole fare di uno spettacolo la principale voce del nostro fatturato nazionale e se si intende, effettivamente, creare una possibilità di crescita per i nostri giovanissimi, per molti dei quali il calcio è, pur sempre, un’occasione preziosa, se non unica, di emancipazione e di mobilità sociale.
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