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Un Paese violento

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domenica, 12 novembre 2017 00:47

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L'urlo, 1893 di Edvard Munch
Rosario Pesce
Il nostro sta divenendo, sempre più, un Paese violento.
È evidente che la violenza di Ostia, commessa ai danni di un giornalista, è solo l’evento apicale di un processo, che si è compiuto negli ultimi decenni.
Man mano che siamo divenuti meno ricchi, è chiaro che ci sono state fette sempre maggiori di popolazione che, escluse dal benessere, si sono rifugiate in fenomeni socialmente ai limiti della legalità per sopravvivere.
E, così, la criminalità ha preso piede in moltissime periferie, anche ben al di là del Sud, notoriamente consegnato alla grande criminalità organizzata.
Cosa fare, allora, per restituire il nostro Paese alla compiuta legalità, anche in quelle aree che, oggi, sembrano irrimediabilmente perse?
Certo è che la politica non aiuta, visto che, molto spesso, essa interagisce con ambienti molto pericolosi che, invece, andrebbero collocati al di fuori di qualsiasi relazione istituzionale, per loro proficua.
Ed è, poi, evidente che il populismo, crescente in modo esponenziale negli ultimi anni, non può che, finanche inconsapevolmente, dare nuova linfa vitale a dinamiche perverse, visto che si crea, molto spesso, un mix pericolosissimo fatto di contestazione sociale, forme di marginalismo sociale e sentimenti e pulsioni molto forti di violazione della legge.
È ovvio che, a breve, le vie della periferia di Roma o di Milano o di Torino diventeranno luoghi infrequentabili ad opera di chi non appartiene ai clan che controllano la vita in quelle arterie.
Peraltro, è evidente che recuperare la legalità in tali aree diviene sempre più difficile, finanche, ad opera delle forze dell’ordine, che, pur compiendo un’opera meritoria di contrasto al crimine, spesso si trovano a combattere contro una difficoltà insormontabile: il consenso sociale, che le bande criminali riescono a raccogliere negli spazi da loro controllati, consente alle stesse di proliferare, visto che una coltre di paure e di complicità di vario tipo fa sì che ogni indagine divenga più difficile di quanto, già, non lo sia in partenza.
È giusto che, anche, la Scuola possa fare ed alimentare il suo percorso educativo e che possa offrire il giusto contributo per eradicare fenomeni stridenti di violenza e di mancato rispetto della legge, ma le insidie, contro cui gli operatori dell’istruzione pubblica sono costretti a combattere, non sono meno rilevanti di quelle cui vanno incontro le forze dell’ordine.
Certo è che la crisi economica e finanziaria è stata un acceleratore del disfacimento di condizioni minime di civiltà in alcune aree del Paese in particolare, ma di fronte a simile problematiche la sana coscienza civica non può, né deve ritrarsi: altrimenti, l’avranno vinta i violenti ed a perdere saranno coloro che credono, tuttora, in un futuro di progresso per sé e per i propri figli.
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