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Rosario Pesce
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A pochi mesi dal voto, il Parlamento italiano va, ancora, alla ricerca della migliore legge elettorale, che in un Paese civile dovrebbe essere un patrimonio condiviso di maggioranza e minoranza e non dovrebbe, di certo, mutare con la medesima frequenza con cui sono avvenute le riforme nel corso dell’ultimo ventennio.
In media, ogni legislatura, dopo la caduta della Prima Repubblica, ha varato la propria legge elettorale, a dimostrazione del fatto che, sovente, il legislatore ha agito con l’intelligenza dell’uomo di parte e non con quella dell’uomo delle istituzioni.
Peraltro, non si può non evidenziare come, spesso, sia intervenuto il giudice costituzionale a verificare la compatibilità del dispositivo elettorale con la principale legge dello Stato e, sistematicamente, l’operato del legislatore è stato bocciato, perché ritenuto contrario ai principi della Costituzione.
È evidente che due devono essere i principi su cui si può costruire una legge elettorale: in primis, garantire all’elettore la chance di eleggere il parlamentare – e di non vederselo nominato dal partito – e, quindi, assicurare la governabilità, per evitare una sistematica frammentazione delle forze, che porterebbe ad un’ulteriore delegittimazione del principale organo della democrazia rappresentativa del nostro Paese.
Orbene, le ultime leggi elettorali sono andate nel senso opposto, per cui si è scelto il principio della lista bloccata, che non consente all’elettore di esprimere la preferenza, ed i meccanismi maggioritari, mal costruiti, sono stati bocciati dalla Consulta, per cui - ad oggi - il dispositivo sarebbe proporzionale in senso stretto e, quindi, incapace di varare maggioranze salde all’indomani del voto.
Si capisce bene il motivo per cui i parlamentari uscenti vogliono la lista bloccata: molti di loro, ricandidati nella posizione utile per l’elezione, sarebbero di fatto di nuovo parlamentari senza colpo ferire, anche se – a parole – ovviamente si professano in favore di una democrazia compiuta e non solo di mera forma.
Quanto al principio proporzionale, è pleonastico sottolineare che i Governi, nel corso della presente legislatura, si sono formati grazie al consenso delle forze minori, a cui pure va garantita la rappresentanza o abbassando la soglia di sbarramento o, addirittura, non prevedendola affatto.
Pertanto, si andrebbe verso un nuovo Parlamento di nominati e Governi di coalizione, che si reggono sul voto del parlamentare siciliano o lombardo di turno, che è in grado di mettere insieme una sparuta pattuglia di deputati o senatori, grazie ai quali il Dicastero conseguirebbe la maggioranza nei due rami del Parlamento, in cambio di un prezzo politico che non è proporzionale (quello sì!) alla vera forza contrattuale dei soggetti in campo.
Come si vede, i nostri parlamentari hanno una capacità unica: saper fare peggio di prima.
A nessuno sfugge che la Seconda Repubblica è nata con un dispositivo di legge di tipo maggioritario, che garantiva la nascita delle coalizioni e che ha dato al Paese alcuni governi duraturi, soprattutto ai tempi delle maggioranze berlusconiane.
Perché non reintrodurre allora il maggioritario, che almeno garantiva all’elettore la possibilità di scegliere il parlamentare del proprio collegio?
Forse, si ha paura del voto degli Italiani?
O, forse, è più opportuno un proporzionale, che enfatizza il male tipico dell’Italia, il trasformismo?
Ci piacerebbe, invero, avere una legge elettorale certa ed equilibrata: l’avremo mai?
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