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Rosario Pesce
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Oggi, è 11 settembre.
Sedici anni fa, cambiava la storia degli Stati Uniti d’America e del mondo intero, a seguito dell’attentato, che veniva perpetrato ai danni delle Torri Gemelle di New York.
Da quei momenti in poi, che molti di noi ebbero modo di vivere in diretta televisiva, il mondo non solo ha cambiato faccia, ma è sensibilmente peggiorato.
Infatti, la paura del terrorismo islamico ha colpito l’intero Occidente, che reagì in modo assai scomposto, con le guerre volute da Bush e da Obama, che certo non hanno migliorato le condizioni complessive di un pianeta, che vive in uno status di perenne conflitto.
Peraltro, è ben noto che il terrorismo islamista non solo non è stato eradicato, ma soprattutto è divenuto ben più virulento, dal momento che alcune scelte scellerate – come quella di indurre il cambiamento dei regimi del Nord-Africa – hanno determinato un’esplosione ulteriore di violenza, divenuta – in alcuni casi – invero incontrollabile.
Dopo l’11 settembre 2001, quindi, sono mutate le coordinate geo-politiche: la conflittualità, a livello planetario, si è trasferita dall’asse Est-Ovest a quello Nord-Sud, con implicazioni ancora più gravi, visto che l’odierno Sud del mondo ospita la stragrande maggioranza della popolazione in condizioni di scarsa alfabetizzazione e di precarie contingenze alimentari e di salute.
Non è un caso se, dopo quell’evento funesto, è incrementato notevolmente il numero di persone diseredate, che si sono trasferite lungo le nostre coste, allo scopo di trovare condizioni di vita migliori per sé e per i propri figli.
È evidente, quindi, che i cambiamenti, indotti dall’11 settembre, abbiano avuto un’eco, che tuttora non si è spenta: troppo ampia è la portata di fatti, che hanno determinato il trasferimento di milioni di individui da una parte all’altra del mondo, modificando così equilibri – numerici, religiosi e culturali – fra popolazioni e distinte etnie.
Certo, non sappiamo se e come sarà vinta la scommessa dell’integrazione, visto che non basteranno pochi decenni per far scomparire la paura del terrorismo islamista e le fobie indotte da flussi migratori così ingenti e repentini.
È ovvio che l’Occidente dovrà lavorare molto su se stesso e sulle sue paure ancestrali, per superare un momento di disagio, che ormai si protrae da circa venti anni.
Forse, ogni aereo, che si vede in cielo, è dirottato da terroristi cinici, pronti a morire al grido “Dio è grande”?
Forse, ogni cittadino islamico, che si incontra all’angolo di strada, è pronto a farsi saltare in aria?
Forse, ogni immigrato di colore è portatore di malattie e di morbi, che l’Occidente aveva creduto si fossero estinti per sempre?
Come si nota, quindi, il lavoro da fare è, davvero, molto rilevante, ma sappiamo bene che il darsi una sfida è, già, l’inizio di una nuova storia, che può e deve iniziare con un messaggio irenico e di forte impronta umanitaria.
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