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La cultura del lavoro

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sabato, 27 maggio 2017 22:11

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Pagine del codice di Parigi, uno dei pochi libri Maya sopravvissuti - Bibliothèque Nacionale de France
Rosario Pesce
È molto strano, per davvero, che negli ultimi anni l’unico, autentico assertore della cultura del lavoro sia il Pontefice, che - con toni molto accesi - non manca mai di sottolineare la centralità di tale valore nella morale cristiana.
È evidente che, con il nuovo secolo e la conclusione dell’ideologia marxista, la difesa del lavoro e dei lavoratori sia divenuta una prerogativa esclusiva del mondo cattolico, vista appunta la scomparsa della cultura socialista.
Ma, è ovvio che, per quanto molto importante possa essere la presa di posizione da parte delle autorità religiose, questa non può essere sufficiente.
Ogni giorno, infatti, il comparto del lavoro perde diritti, per cui, sia da un punto retributivo, che in termini di sicurezza, le condizioni dei lavoratori peggiorano sempre più, tanto più per effetto di una cultura, che ha dominato nell’ultimo ventennio, che ha esaltato - oltremodo - il feticcio della precarietà.
Non è un caso se, per molti anni, il liberismo è stato il punto di riferimento essenziale per moltissimi governanti, per cui la modernità, sovente, è stata confusa con la negazione di diritti, che invece sono il portato di secoli di lotta e di autentica evoluzione del pensiero giuridico.
Nel giro di pochi anni, è stato demolito molto di ciò che era stato costruito nei secoli precedenti: la stagione dei diritti dei lavoratori ha, purtroppo, conosciuto una battuta d’arresto molto significativa, che ha determinato, peraltro, le difficoltà politiche dell’Unione Europea e la condizione di disagio di moltissima parte delle classi dirigenti del nostro Paese.
Non si può negare che la globalizzazione ha prodotto i suoi effetti negativi in tal senso, perché ha dato agli imprenditori la possibilità di andare a dislocare le loro produzioni in luoghi, lontani dall’Europa, dove i costi sono molto minori rispetto a quelli del vecchio continente, per cui si è innescato un meccanismo di competizione che ha negato, progressivamente, moltissimi diritti, ritenuti inalienabili fino a pochissimo tempo fa.
Cosa si può fare per invertire la tendenza?
Forse, poco o nulla, visto che le dinamiche economicistiche prendono, sempre più, il sopravvento rispetto a quelle di natura politica?
D’altronde, è evidente che la delegittimazione dei partiti ha favorito una simile dinamica, che ha prodotto effetti perversi, negando molti momenti di crescita del movimento operaio, consumatisi lungo il XIX ed il XX secolo.
Non ci resta, forse, che assecondare il nuovo modo di essere del capitalismo, ben sapendo che, per tal via, il conflitto sociale subirà una recrudescenza sempre più forte e violenta?
Certo è che, nonostante le speranze andassero in altro senso, purtroppo si è dato vita ad un mondo, che rischia di essere molto più iniquo di quello che abbiamo lasciato alle nostre spalle.
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