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Vita o morte?

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sabato, 04 marzo 2017 23:08

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Prunksaal: Allegoria della Pace e del cielo. Soffitto dipinto da Daniel Gran (1694-1757), terminato nel 1730
Rosario Pesce
È sempre difficile fare una riflessione, dotata di senso, intorno al valore della vita e della morte, visto che sono in gioco ideali, che investono la ragione, i sentimenti, la dimensione emotiva di ciascuno di noi.
I fatti, accaduti nel corso dell’ultima settimana, però impongono che gli Italiani chiedano al Parlamento di intervenire in una materia, qual è quella del finis vitae, che nel nostro Paese non è di fatto regolamentata.
Testamento biologico? Suicidio assistito? Eutanasia? Interruzione del trattamento farmacologico?
Sono tutti quesiti che interrogano, in primis, la coscienza dell’individuo, che si trova a ragionare, fino a quando è lucido, sul momento del proprio trapasso, quell’istante che, ineluttabilmente, segnerà la conclusione della vita di ciascuno, aprendogli – se esiste – le porte di una vita trascendente.
Le religioni ci hanno sempre insegnato che la vita è un dono di Dio – qualunque sia il suo nome – e che, pertanto, su tale ambito noi esseri umani non possiamo decidere.
Ma, è vita quella di un individuo ridotto ad una mera esistenza biologica, come nel caso di Eluana Englaro?
Ovvero, è vita quella del dj Favo, che - pur essendo molto lucido - era ridotto in un letto privo dell’uso degli occhi, delle mani e dei piedi e di un’autonoma deglutizione?
È evidente che si tratta di due situazioni ben diverse, visto che, nel primo caso, si è staccata la spina a fronte di un accanimento terapeutico, che durava da anni, mentre nel secondo un essere cosciente è stato assistito nel gesto coraggioso del suicidio.
Quale delle due fattispecie potrà mai essere introdotta, in modo compiuto, nella nostra legislazione, cosicché il genitore o il parente, che assiste un malato terminale in siffatte condizioni, non possa poi essere oggetto di incriminazione per omicidio?
Giudizio Universale alla Cappella Sistina di Michelangelo
È ovvio che, nel nostro Paese, il dibattito intorno alla vita umana non può che essere condizionato dal ruolo preponderante della Chiesa, ma è ineluttabile che, almeno una volta, la distanza fra laici e cattolici venga compiutamente meno, se si vuole evitare che il prossimo malato terminale vada a farsi assistere in Svizzera o in Olanda per morire secondo i suoi legittimi desiderata.
Peraltro, se con l’introduzione dell’aborto, la vita non è più un obbligo, perché si concede alla madre di scegliere se continuare o meno la gravidanza, condizionando - quindi - in modo determinante gli sviluppi di un’esistenza, comunque, diversa dalla propria, perché non si può concedere la possibilità ad un uomo di decidere quando morire, in presenza di fatti gravissimi, che pregiudicano in maniera forte le sue possibilità di vivere dignitosamente?
È pleonastico sottolineare che, con la crescita del mondo occidentale e con lo sviluppo economico degli ultimi due secoli, la vita umana si è allungata in modo straordinario, per cui oggi la scommessa autentica di chi appartiene a questa fetta di mondo non è, invero, la quantità, ma la qualità della vita, che può essere pregiudicata da malattie invalidanti, che minano sia la salute fisica, che quella psichica di un individuo, che diviene, d’un tratto, non più autonomo nelle fatiche e nei gesti quotidiani.
Forse, per davvero, il legislatore italiano deve fare un salto di qualità e guardare oltre la siepe di un pregiudizio, che oggi non ha più senso, visto che, con poche migliaia di euro, si può fare oltre le Alpi ciò che non è consentito in Italia?
Forse, una tale opinione può essere viziata da laicismo?
O, forse, molto più probabilmente, la laicità è la più importante premessa per la pietas umana, dal momento che quest’ultima non può esserci se disgiunta dalla dignità, che tutti ricerchiamo sin dal primo vagito?
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